Brad Meldhau, i viaggi nell'improvvisazione.
Di venerdì, da ora in poi, ci sarà lo spazio per una critica, una recensione di uno spettacolo, o di un intervista.
Mi raccomando se vi capita di vedere uno spettacolo, interno all'istituto o esterno, inviateci una mail con la critica, sarà senz'altro pubblicata.
Siamo andati a sentire Brad Mehldau nell'auditorium di Pagnacco il 3 novembre scorso.
La fama già lo precedeva quasi che si riteneva impossibile non andarlo a sentire e ciò è stato, ed ora vi raccontiamo cosa abbiamo visto:
Mi raccomando se vi capita di vedere uno spettacolo, interno all'istituto o esterno, inviateci una mail con la critica, sarà senz'altro pubblicata.
Siamo andati a sentire Brad Mehldau nell'auditorium di Pagnacco il 3 novembre scorso.
La fama già lo precedeva quasi che si riteneva impossibile non andarlo a sentire e ciò è stato, ed ora vi raccontiamo cosa abbiamo visto:
Una ballerina, che pattina su di un lago ghiacciato; inizia a danzare, prima con movimenti lenti ed aggraziati, calibrando ogni mossa, considerando anche il minimo gesto come anche un cenno, fosse fondamentale alla riuscita del ballo. Poi il ghiaccio si rompe, ed ogni crepa s'ingrossa con una vena che lentamente avanza sino a raggiungere la riva. Allora la nostra pattinatrice inizia a fluttuare, sempre più precipitosamente galleggia in aria, la temperatura si riscalda, il ghiaccio continua a sciogliersi ma oramai non ha più importanza. Lo scenario cambia e la ballerina inizia a viaggiare, e viaggiare. Ma il ciclo del viaggio, proprio perché si parla di ciclo, ha la necessità di un ritorno a casa e questo avviene lentamente, come da principio. Il fluttuare riporta la fanciulla verso il lago, la temperatura si raffredda, tutto rallenta e torna all'iniziale "normalità". E scende il buio quando gli argentati pattini riaccarezzano il fondo di nuovo ghiacciato.
Può sembrare solo una piccola storia, può parere solo una personale opinione, ma se si paragona quest'allegoria ad ogni brano che quella sera, all'interno dell''auditorium di Pagnacco, Brad Mehldau ha proposto al suo ansioso pubblico, forse si può avere una, seppur modesta, idea di ciò che è realmente avvenuto grazie alla sua arte.
Uno Steinway, completamente aperto, al centro della sala, un semplice telone scuro a fare da scenografia, ed un giovane che con maniere molto posate entra in scena, si inchina ed appena l'applauso termina incomincia a flirtare con i tasti del pianoforte. La scena sarà sempre quella: l'applauso, lungo, generoso, lo scroscio che termina e già si ode una nota che ricompone gli entusiasmi e concilia al raccoglimento.
Si sta parlando di un pianista jazz, bianco, giovane, americano, già famosissimo in tutto il mondo, la cui fama che l'aveva preceduto, ha incrementato le aspettative del pubblico, a mio avviso ampiamente soddisfatte con tre bis ed una standing ovation finale.
Brad Mehldau aveva preparato per il suo pubblico una decina di brani che definirei viaggi interiori della sua sensibilità. Ogni pezzo proposto durava dai 15 ai 20 minuti, senza mai alzare lo sguardo, ondeggiando con le note da lui stesso prodotte. E' stato un concerto che sapeva tanto di interiorità, un dialogo con il piano, coscienzioso ed intimo. In genere l'attacco era sempre lento, melee tanto che ci si sarebbe aspettato di sentire un canto, una voce, che accompagnasse le note; ed il canto c'era, la sua mano destra vagava in cerca di piacevoli e semplici melodie. Come in quelle scene cinematografiche dove l'attore prende il treno e guarda fuori dal finestrino pensando alla sua vita ed al suo futuro, e mentre le immagini scorrono nella sua mente, una melodia corrobora il tutto impastando la scena.
La musica che trascendeva dalle mani di Mehldau, dopo il romaniticissimo inizio, ha preso lentamente le pieghe del jazz alternando le mani come si alternano le voci soliste di un gruppo. Nulla di particolarmente virtuoso, nessun fortissimo con trenta f, nessun particolare salto di mille ottave, solo un genio che pur restando in 4 ottave di estensione, toccando solo tal volta i registri più gravi e quasi mai andando in acuto, riusciva con ogni trapasso a far meravigliare e poi a far esplodere il pubblico che, attonito, si rendeva conto solo dopo qualche secondo, che il brano era finito, non volendo dolorosmente accorgersi del suo termine.
Quindi romantiche melodie, tanto ma tanto jazz, spaziando nel blues e talvolta nel ragtime e molto spesso nel classico provenendo come scuola d'infanzia da quest'ultima tradizione.
Il quinto brano mi ha particolarmente colpito. Era quasi un notturno, bellissimo e di una dolcezza incantevole, lento e profondo, come il blu dell'oceano. E dopo una decina di minuti di navigazione per questa meraviglia, come un'onda che s'increspa, parte una scala jazz, si perfeziona, si modifica, si conclude, ed il blu dell'oceano riprende la sua placida e romantica formazione.
In definitiva un concerto di un artista a mio avviso che non bisognava da perdere. Parlava di jazz ma parlava soprattutto di musica e di come essa riesce a descrivere l'anima, solamente dipingendo nell'aria delle note. Uno spettacolo che aveva molto dell'introspettivo ma che permetteva anche a chi era là, seduto quella sera, di apprezzare alcune nuove frontiere del jazz contemporaneo per piano solo, ed alcune originali interpretazioni di una musica che non smetterà mai di farci stupire e di scatenare standing ovations e generosi applausi.
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